Allevamento della vite e vivaismo:
Sappiamo che la produzione di un buon vino inizia nel vigneto, ciò ci consente un'analisi su come cambiare per migliorare la qualità del prodotto finale e su come aiutare le imprese agricole del settore, specie le più piccole, a restare concorrenziali in un sistema produttivo che dovrà seguire le leggi del mercato, tenendo presente che il consumo tende a diminuire. Con la riduzione del lavoro manuale, nelle stese campagne, il consumo pro-capite tende infatti a ridursi, mentre le categorie impiegatizie sono meno bevitrici di vino.
I viticoltori, più attenti, con un lavoro lungo e paziente, hanno sviluppato la coltivazione della vite inventivandone la riconversione varietale al fine di potenziare l'esaltazione dei contenuti qualitativi del prodotto. Nelle zone viticole più vocate a vigneti, spesso, esiste una meravigliosa simbiosi tra vitigni, clima e terreni. Ed è solo sfruttando sapientemente questi elementi che un buon viticoltore riesce a produrre vini di alta qualità.
Nel corso dei secoli la coltivazione della vite, attraverso alterne vicende, ha subito un impulso enorme.
L'uomo, così, ha potuto selezionare il vitigno più adatto a determinate zone di terreno, al clima ed agli altri fattori ambientali, tanto che i Chianti, i Marsala, i Barolo, i Taurasi, i Falerno, i Solopaca, ecc. evidenziano le loro spiccate caratteristiche proprio se provenienti da uve di vitigni coltivati in quelle zone di terreno particolarmente vocate.
I ricercatori, anche per seguire l'evoluzione delle cultivar, cercano continuamente di trapiantare determinati vitigni da una zona, per esempio, a clima più freddo, in una zona più calda e viceversa. Questo succede anche in Italia, dove la configurazione dello stivale consente di avere climi assai diversi da una regione all'altra, ma irislultati spesso non sono soddisfacenti, perchè il terreno ed il clima influiscono certamente sulle quelità intrinseche del prodotto, sulle percentuali degli elementi contenuti, sull'epoca di maturazione delle uve, ecc., per cui gli stessi vitigni danno vini assai diversi, cambiando zone di produzione.
In ogni regione Italiana si producono dei buoni vini, molti dei quali godono di larga notorietà anche all'estero. Ciò sta a significare che, fatta eccezione per le uve di base che si coltivano in larga misura in quasi tutte le regioni, particolari vitigni, nel corso degli anni, per una serie di motivi, hanno trovato il loro habitat naturale in quella regione anzichè in un'altra.
Negli ultimi anni le continue ricerche, in ogni singola regione, per tipicizzare i vini locali e per migliorarne la qualità, hanno portato alla valorizzazione e spesso alla riscoperta di vitigni autoctoni, già famosi all'epoca dei Greci e dei Romani e che, a volte, sono rimasti trascurati per secoli per ignoranza, per motivi economici, per la concorrenza di altri vitigni, provenienti da altre zone, molto propagandati e per tante altre cause.
In Campania, per esempio, esistono vitigni famosi come l'Alglianico, il greco di tufo, la coda di volpe, la falanghina, ecc., che danno degli ottimi vini, spesso non valorizzati in campo economico- commerciale e di conseguenza non conosciuti a sufficienza dai consumatori.
La necessità di valorizzare al meglio i vitigni autoctoni, ha fatto nascere quasi spontaneamente il vivaismo locale, che, per la verità, sta dando ottimi risultati.
Difatti le barbatelle innestate ed allevate nei vivai locali, hanno anzitutto il pregio di essere già ambientate e consentono di controllare da vicino le varietà richeste ed innestate. Il vivaismo, inoltre, crea nuovo lavoro e soprattutto è motivo di nuove conoscenze fra gli addetti, in quanto il vivaio è fonte di continui aggiornamenti. Si può concludere con una parola d'ordine: MENO VITIGNI, PIU' QUALITA. Bisogna cercare di rinnovare i vigneti, incentivando la politica delle basse rese e della qualità, poichè nel tempo è l'unica politica destinata a dare i migliori profitti.
Calorie in etichetta?
A Bruxelles, durante la riunione del comitato, 11 paesi dell'Unione Europea, tra cui la Svezia che occupa attualmente la presidenza, si sono mostrati favorevoli che sia da ubito obbligatoria l'indicazione in etichetta delle calorie del vino e delle bevande alcoliche.
Italia, Spagna, Germania, Francia, Portogallo, Grecia, Austria, Cipro, Romania e Bulgaria si sono invece mostrati favorevoli alla proposta della Commissione Europea che prevede un periodo di transizione di 5 anni.
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Alcol che non fa ubriacare
Una sostanza che regala la sensazione di euforia dell'alcol senza i pesanti effetti collaterali, sbornia compresa, è stata messa a punto in Gran Bretagna dagli studiosi dell'Imperial College di Londra guidati da David Nutt, esperto di sostanze stupefacenti ed ex consulente del governo britannico su droga e affini. A detta di Nutt il nuovo composto, incolore e insapore, permetterebbe di produrre vino, birra e liquori che, a differenza delle bevande analcoliche, mettono allegria ma non provocano mal di testa, stordimento e danni al fegato.
(Fonte: http://multiplayer.it/ - 9-02-2010)
Il vino nella farmacopea antica (Tratto da: L'uomo e il vino T.R. Editrice)
Per Ippocrate l'acqua è bevanda più pericolosa del vino, per cui è conveniente sostituire l'acqua con il vino, perchè il malato riacquisti la salute. E' certo che l'acqua pura, non bollita, era nell'antichità più dannosa del vino, veicolando essa i germi di numerose malattie. E' altresì noto che il vino era spesso usato come disinfettante dell'acqua. Il vino dolce provoca una minore pesantezza di testa rispetto a quello forte; è meno diuretico del vino bianco forte, ma è più adatto all'espettorazione. Il vino bianco forte, passando più facilmente nella vescica, è più diuretico e più lassativo ed è sempre utilissimo in queste malattie. Si può passare dal vino bianco al vino paglierino o nero nelle seguenti condizioni: quando non c'è il blocco dell'urina e le feci sono assai umide; il vino paglierino o nero, quanto più è tagliato, tanto meno nuocerà alle parti superiori e alla vescica, e, quanto più è puro, tanto più è utile all'intestino. Il vino è del tutto sconsigliato in presenza di forti dolori di testa o di attacchi di cervello. Il vino, bianco o nero, purchè freddo, è utilizzato per disinfettare le piaghe, anche quelle di lunga durata.
Anche Celso nel suo trattato Della medicina registra un diffuso impiego medicinale e dietetico del vino. Come bevanda ordinaria, il vino allungato e leggero è preferibile all'acqua pura. Acqua e vino alternati sono veri e propri medicinali, particolarmente indicati contro ogni tipo di affaticamento e in tempo di epidemie.
Per la terapia delle affezioni intestinali è controindicato l'uso del vino salato, leggero o dolce; è, invece, indicato il vino secco, di corpo piuttosto pieno e non tanto vecchio. E', infatti, lassativo il vino mielato, dolce o salato, mentre, sono astringenti il vino resinato o aspro, il vino pretto, l'aceto, il vin cotto fermentato, la sapa e il vino d'uva passa. Per scongiurare i deliqui (ne anima deficiat) conseguenti ai continui svuotamenti del ventre è prescritto il vino, che deve essere sottile, odoroso, allungato con acqua fredda, con polenta o pezzetti di pane. In tal modo si rinnovano le forze. Celso non condivide il consiglio di Eristrato di cominciare con tre o cinque gocce di vino spruzzato nella bevanda fino ad arrivare a poco a poco al vino pretto. Nella dissenteria è indicato un bicchiere di vino a digiuno con dentro radica di cinquefoglio pestata; in mancanza di febbre, si può bere vino leggero e asciutto. Per arrestare la diarrea è prescritta mazza libbra di pane inzuppato in vino d'Aminea puro e poi il medesimo vino allungato con acqua piovana per cinque giorni.
Ai malati di stomaco si consiglia di bere a digiuno non acqua, ma vino caldo, di consumare vino leggero e secco e di aiutare la digestione con vino freddo. Allo stomaco fa bene il vino secco anche se aspro, e il vino resinato; fa male, invece, il vino dolce e di uva passa. Il vino è particolarmente indicato a dare forza e calore a coloro che sono affetti dal morbus cardiacus, consistente in un forte languore e dolore di stomaco con astenia generale e abbondante sudorazione. Per l'ulcera gastrica è consigliato il vino dolce, se non c'è febbre, che deve essere più leggero, se sviluppa flatulenze, mai però troppo freddo o troppo caldo. Bisogna pasteggiare con cibi digerigili e vino asciutto.
Il vino è prescritto nella terapia della febbre terzana, quartana, e quartana doppia.
Nella cura dell'idropisia è utile il vino asciutto, ma molto sottile.
Asclipiade curò un idropico con digiuno e frizioni per due giorni e con la somministrazione di cibo e vino nel terzo.
Nella cura dell'itterizia è prescritto in una prima fase vino greco salato, perchè il ventre si mantenga sciolto e, successivamente, vino puro e asciutto.
Il vino è sconsigliato nei primi segni del catarro ed è, invece, consigliato nella fase di decongestione. Tre o quattro bicchieri di vino asciutto, presi a un certo intervallo, giovano alla tosse, quando è secca.
Il vino è, infine, utile a stagnare il sangue e giova contro tutti i veleni.
Il vino nell'alimentazione: considerazioni psicoantropologiche (Tratto da: L'uomo e il vino T.R. Editrice) autore: Giuseppe Giulio Giordano
Il carattere, ampiamente interdisciplinare, di questo volume mi ha indotto a riportare il contributo che discipline come la psicologia e l'antropologia hanno offerto alla conoscenza del significato dell'alimenazione (e quindi del vino) relativamente al costituirsi della natura umana e al rapporto natura/cultura*.
L'animale si nutre, l'uomo mangia, solo l'uomo di spirito sa mangiare. Questa frase di Brillat-Savarin esprime il passaggio da una condizione meramente naturale dell'animale, che si alimenta solo per nutrirsi, a quella dell'uomo, in cui l'alimentazione trascende questo significato esclusivamente biologico, tanto più quanto più l'uomo è raffinato.
L'importanza dell'alimentazione nel processo di ominazione, cioè del costituirsi della specie umana, è stata sottolineata in questi ultimi decenni, grazie alle acquisizioni recenti della paleantropologia.
Imponenti movimenti tettonici, verificatisi nelle regioni orientali dell'Africa fra i cinque e i sette milioni di anni fa, avevano portato infatti ad un inaridimento del clima, per cui le foreste furono sostituite dalla savana. Ciò indusse i nostri predecessori - le australopitecine - a scendere daglli alberi con assunzione della stazione eretta: esse continuarono però ad essere erbivore. La grande svolta alimentare avvenne poco più di due milioni di anni fa, quando comparve il primo vero rappresentante della specie umana, homo habilis, che divenne onnivoro. Ciò significa che la sua alimentazione si basò, oltre che sulla raccolta di cibi vegetali, anche sulla caccia agli animali per mangiarne la carne.
Questo nuovo tipo di alimentazione contribuì a produrrre "straordinarie" modificazioni nella struttura somatica.
In primo luogo, il maggior apporto calorico, fornito dalla carne, consentì una riduzione dell'apparato masticatorio. Questo, quando l'alimentazione era erbivora, costituiva una vera e propria macina vivente. I molari, ad esempio, avevano dimensione 6-8 volte seperiori a quelle attuali; le ossa mascellari erano molto robuste, la muscolatura masticatoria era molto poderosa e quindi aveva bisogno di una base d'inserzione molto ampia e solida che comprendeva, tra l'altro, una cresta ossea, allora esistente sul cranio.
Le diminuite necessità masticatorie, derivanti dalla alimentazione carnea, consentirono una riduzione del massiccio facciale con contemporanea espansione del cranio anteriore, dove trovò spazio il cervello frontale. Inoltre, la riduzione del massiccio facciale determinò lo spostamento posteriore degli organi della fonazione, che consentì il costituirsi del linguaggio verbale, in interazione col graduale sviluppo delle aree specifiche del linguaggio del cervello.
Queste trasformazioni, legate all'alimentazione, (oltre quelle connesse all'assunzione della stazione eretta) contribuirono a rendere l'uomo capace di modificare l'ambiente naturale (per costruire, ad esempio, gli strumenti necessari per la caccia) e, al tempo stesso, idoneo a trasmettere alle generazioni successive, attraverso il linguaggio le nuove acquisizioni: nacque così la cultura (nel significato prima indicato) che distingue l'uomo da tutte le altre specie animali.
L'altra grande rivoluzione nella società umana, legata specificamente all'alimentazione, è rappresentata dall'agricoltura, con la domesticazione degli animali iniziata in epoca molto recente, circa ottomila anni a. C. Noè cominciò ad essere lavoratore della terra e piantò la vigna. E bevve del vino e si inebriò. (Genesi). Nell'area mediterranea, culla della civiltà occidentale, la viticultura venne configurandosi, alla pari della cerealicultura, come simbolo di civiltà superiore, quasi espressione della stessa condizione umana, cosicchè pane e vino assumevano significato di perfezione.
Come si vede l'alimentazione si veniva così sempre più svincolando dalle strettoie dell'ambiente naturale e quindi i gusti individuali e delle diverse popolazioni potevano differenziarsi in relazione alle varie situazioni ambientali, cosicchè col tempo i cibi biologicamente commestibili sono divenuti non sempre culturalmente mangiabili.
Ciò si speiga col fatto che le condotte alimentari sono risultante di molteplici fattori, che operano interattivamente nella formazione del gusto:
- biologici;
- psicologici individuali;
- degati all'esperienze di ogni singola persona;
- socioculturali, derivanti dall'ambiente di appartenenza
(*) cultura è inteso qui, nell'accezione antropologica, come quell'insieme di valori, norme, simboli, tecniche e mezzi materiali che caratterizzano una società.
Alla base, vanno posti i fattori biologici, che determinano, per via genetica, almeno quattro gusti fondamentali: dolce, amaro, acido, e salato. La predilezione per il sapore dolce ha valore fondamentale per la sopravvivenza individuale (in quanto favorisce l'assunzione del latte subito dopo la nascita) e della specie, poichè le sostanze dal sapore dolce contengono molte calorie prontamente utilizzabili.
L'opposta avversione innata per l'amaro trova una sua spiegazione in termini evoluzionistici nel fatto che alcune sostanze amare sono tossiche; nel linguaggio comune: ho fatto un'amara esperienza.
Nel corso dell'infanzia, gli alimenti più graditi sono risultati: le ciliege, le fragole, la cioccolata, le patatine fritte, il gelato; i più sgraditi: la panna del latte, la cervella, il pepe, aglio e cipolla.
Nell'adulto, invece, diventano ben accetti anche i cibi dal gusto forte (aceto, pepe, aglio, peperoncino).
Sono state riscontrate anche differenze fra i sessi: le donne rifiutano un maggior numero di cibi, manifestando peraltro il loro disgusto con reazioni molto intense, sia mimiche che verbali, rispetto all'uomo.
Componenti psicologiche individuali
Il modificarsi del gusto con l'età depone per l'esistenza, sul piano genetico, di una programmazione aperta, che consente la flessibilità necessaria per l'integrazione delle componenti innate con quelle psicologiche individuali e quelle culturali: la famiglia e la società propongono infatti un ventaglio di scelte a cui il banbino si adatta gradualmente.
Le modificazioni notevoli del gusto sono peraltro spiegabili con la varietà e complessità delle componenti che determinano la percezione dei sapori; intervengono infatti, oltre alle sensazioni gustative della lingua e del palato, le sensazioni termiche (un buongustaio non berrebbe mai vino bianco che non fosse a temperatura di cantina); le tattili ( come potrebbe un napoletano mangiare vermicelli che non fossero al dente); olfattive (il bouquet del vino!); acustiche ( il croccante delle patatine fritte); visive (talora ingannatrici....).
L'alimentazione è, nel periodo iniziale della vita, il centro del mondo affettivo-relazionale del bambino: ad essa sono infatti legate le sensazioni di benessere/malessere fisico e psichico, quindi il sentimento di essere (o non essere) amato e protetto.
Oltre che dalle componenti affettive, la formazione del gusto, durante l'età evolutiva, viene fortemente condizionata dall'apprendimento. In tal senso, intervengono: in un primo tempo, la famiglia e, successivamente, i gruppi dei pari e i mezzi di comunicazione di massa, i quali, nella società contemporanea, stanno assumendo un ruolo talvolta superiore a quello della famiglia stessa.
Come si sa, fra le diverse popolazioni oggi esistenti nel mondo, si rilevano straordinarie variazioni del gusto.
In una ricerca, condotta qualche anno fa, si è osservato che il cibo animale più diffuso è il pollo (carne e uova) consumato da 363 diverse popolazioni; seguito dai bovini (carne e latte) in 196; dal maiale in 180, etc.; vi sono ben 42 popolazioni che mangiano regolarmente il topo. Ben più numerose, in tutto il mondo (dall'America del Sud all'Asia, all'Australia) sono le popolazioni che si cibano di insetti (formiche, api, ragni, scarafaggi).
Evidentemente, queste variazioni così rilevanti non sono spiegabili su basi esclusivamente biologiche: si pensi al fatto che la migrazione da un'area culturale ad un'altra consente l'adattamento al nuovo regime alimentare nel corso di una/due generazioni.
Una prima interpretazione di queste variazioni interculturali si basa sull'analisi costi/benefici; le preferenze alimentari nelle diverse popolazioni sono cioè considerate conseguenza del dispendio di energia necessaria a procurarsi il cibo nell'area geografica in cui si vive.
Nelle zone, in cui sono molto numerosi gli insetti grandi (e appetitosi), non vi è quindi motivo per cibarsi di carne di mammiferi di grossa taglia, abbondanti in vece in altre aree.
D'altra parte, il valore energetico degli insetti è più che soddisfacente, quando si pensi che 100 g. di crema di insetti forniscono più del doppio di calorie di un hamburger dello stesso peso.
Questa interpretazione, ispirata al materialismo culturale, appare peraltro riduttiva.
Per comprendere ciò che rende un cibo desiderabile presso una popolazione e detestabile presso un'altra non è sufficiente riferirsi soltanto alla sua economicità, al valore nutritivo, etc., ma è necessario conoscerne anche il valore simbolico, cioè il significato che esso ha assunto nell'immaginario di una popolazione, nel corso del tempo. Anche il gusto va cioè storicizzato.
In tal senso, grande importanza hanno assunto le religioni. Non aspettare la manna dal cielo si dice tuttora a chi attende passivamente un dono dall'alto, con riferimento alla manna (cibo), inviata in dono da Dio agli Israeliti.
Voi siete il sale della terra (Matteo 5,3): il sale nell'antichità era un alimento essenziale ma molto raro, tanto da servire come moneta per i pagamenti (oggi ancora: salario).
Particolare rilievo ha sempre assunto il vino: il primo miracolo di Cristo, avvenne alle nozze di Canaa con la trasformazione dell'acqua in vino. E, nell'Eucarestia, il pane e il vino rappresentano il simbolo della donazione, fatta da Gesù agli uomini, del proprio corpo e del proprio sangue. L'antichità classica aveva addirittura attribuito un dio (Dioniso/Bacco) al Vino.
Anche ai divieti di natura religiosa sono state date varie interpretazioni. Per esempio, la proibizione di cibarsi di carne di maiale da parte della religione musulmana è stata inizialmente considerata come una prescrizione igienica, derivante dalla facile decomposizione della carne nei climi caldi; è stato però rilevato che la proibizione persiste, con valori simbolici, anche quando il pericolo non sussiste, grazie alle moderne tecniche di lavorazione e di conservazione della carne.
Questa tendenza alla limitazione dell'uso della carne è stata successivamente interpretata anche come una sorta di sollecitazione delle religioni in generale alla rinuncia sacrificale ad un cibo così allettante, in quanto mortificazione del corpo. Nella cultura primitiva, all'alimentazione sono legati molti rituali, orientati dal pensiero magico, secondo le caratteristiche dell'egocentrismo e dell'animismo: sul piano alimentare, si traducono nella concezione dell'incorporazione, in base alla quale si acquisiscono le qualità dei cibi mangiati. Così, i guerrieri desiderano cibarsi di animali forti e coraggiosi ( per es. il leone) o di parti del loro corpo (fegato, cuore) per assumerne le caratteristiche.
Nel linguaggio comune: è coraggioso come un leone; è uomo di fegato, etc.
Non a caso nella pubblicità di alcuni cibi (p. es. caramelle) viene rappresentato il leone.
Queste modalità di pensiero sono anche a base del cannibalismo o almeno di quello che è stato chiamato cannibalismo funerario, che consiste nel mangiare la carne (e in particolare, fegato, cuore, cervello) di persone morte, in generale parenti, per assimilarne e conservarne le virtù.
Condotte alimentari: variazioni della storia
La necessità di storicizzare le condotte alimentari al fine di una loro più ampia e completa comprensione, mi induce anche ad un confronto fra i modi di stare a tavola in due diverse epoche storiche: il basso medioevo e oggi.
Come si sa, la forchetta cominciò ad essere usata, a corte, solo nel corso del XVI secolo (Carlo V ne possedeva solo una dozzina). I commensali, quindi, prendevano i pezzi di carne da un piatto comune e li portavano alla bocca con le mani.
Non meraviglierà quindi che i dettami di cortesia a tavola fossero di questo tenore: Non rimettere nel vassoio l'osso che hai spolpato; fanciullo, se il tuo naso gocciola, non pulirlo con la mano, con la quale prendi il cibo. La cortesia quindi consisteva nel soffiarsi il naso con la mano sinistra, se si impiegava la destra per mangiare (i fazzoletti non si usavano ancora).
D'altra parte, si raccomandava, di non sputare sopra la tavola perchè è cosa sconveniente.
Questi comportamenti, allora seguiti anche a corte e oggi inaccettabili persino in una bettola, erano espressione di ethos culturale generale, molto differente da quello proprio della società contemporanea, che ha naturalmente i suoi riflessi anche sulle condotte alimentari attuali. Queste appaiono legate a vari aspetti caratterizzanti la nostra società, fra cui principali: l'indistrializzazione nella preparazione degli alimenti, il lavoro extradomestico di più componenti della famiglia, la nuclearizzazione della famiglia, l'ubanizzazione.
Le conseguenze, che ne derivano, si possono così riassumere:
- Omogeneizzazione dei sapori. Almeno tre quarti degli alimenti passano oggi attraverso l'industria che, per diffondere il più ampiamente possibile e propri prodotti, deve eliminare, o almeno smussare, le caratteristiche più specifiche dei vari cibi (i sapori forti, le peculiarità regionali, etc.) in modo da renderli graditi, o almeno accettabili, in paesi anche nolto differenti sul piano alimentare. Ciò sta portando alla perdita di identità dei sapori e alla omologazione dei gusti:
- Riduzione del tempo dedicato alla proparazione dei pasti in famiglia. Ciò appare legato sia alla possibilità di servirsi di alimenti in gran parte predisposti dall'industria (si pensi alla lunga, amorevole cura dedicata un tempo nella famiglia napoletana alla cottura del ragù, descritta da E. De Filippo) sia alla ridotta motivazione femminile alla preparazione dei pasti in relazione alla mutata condizione della donna, che oggi può ottenere gratificazioni più appaganti di quelle una volta riservate alla "buona cuoca".
- Contrazione della durata dei pasti.
- Irregolarità degli orari.
- Luogo. Ne Paesi industrializzati la maggior parte dei pasti viene consumata fuori casa.
- Contesto. Quello familiare (quasi mai al completo e spesso sovrastato dalla televisione, che sostituisce la conversazione fra i commensali); o quello collettivo (fast food, mensa aziendale etc.) dove l'asetticità si accompagna all'anonimato e alla superficialità delle relazioni interpersonali.
Dal medioevo molte cose sono cambiate anche nelle condotte alimentari.
Qualità dei vini (tratto da: L'uomo e il vino T.R. editrice) autore: Antonio Aversano
Da anni si assiste ad una campagna più o meno nascosta e più o meno pilotata, tendente ad ingenerare nell'opinione pubblica il sospetto, se non la certezza, che il vino è da considerarsi una droga. Se il vino fosse droga, la nostra civiltà e la nostra cultura non esisterebbero. Perchè parlare di vino è un fatto culturale.
La storia insegna che Noè beveva vino: così pure Platone e Omero, i quali magnificarono ed apprezzarono, tra l'altro, proprio i notissimi e progevolissimi vini della Campania come il Falerno, il Faustiniano, il Caucino ecc..
Questo gioiello dell'agricoltura ha quindi origini antichissime. Ritrovamenti passati e recenti testimoniano che il vino era già noto alcuni millenni prima di Cristo. Lo stesso Gesù beveva vino: ed il suo primo miracolo a Canaa, riguardò proprio il vino.
Fu anche utilizzato prima come merce di scambio e poi come oggetto di fiorente commercio. Attorno al vino si sviluppò La Cultura del Vino, promuovendo ache altre attività indotte come la produzione delle canestrelle per la raccolta dell'uva, delle pregevoli ceramiche per conservarlo e dei torchi per estrarne il succo.
I vini sono stati quasi sempre conosciuti con il nome geografico delle località di origini (come il Falerno, il Barolo) oppure con il nome dell'uva utilizzata, sempre seguita dalla zona di produzione (Vernaccia di Oristano, Aglianico del Taburno). Si può dire che la Denominazione di Origine Controllata significa anche un riconoscimento di una qualità, oltre che di provenienza (DOC).
In effetti tra i fattori che influenzano e determinano la qualità di un vino, in primo piano, c'è il vitigno
che si può esprimere in un modo o in un altro proprio in funzione dell'ambiente in cui vive e del terreno in cui è stato impiantato. E' anche noto che il concetto di "QUALITA'" è mutevole nel tempo: dipende dallo stato di benessere, dal clima, dalle abitudini e dalle tradizioni di una comunità. Per esempio, fino a qualche tempo fa la qualità del vino era rappresentata dal grado alcolico. Infatti il vino era venduto, appunto, a gradi e quindi più questo era alto più ne elevava il valore.
Oggi, invece, qualità significa emanazione odorosa, più o meno intensa e persistente ed equilibrio tra tutti gli elementi della struttura generale.
Il vino per poter estrinsecare la propria qualità deve essere utilizzato nella giusta maniera. In sostanza bisogna saperlo bere. Per quanto riguarda la giusta misura, lascio naturalmente affrontare il problema ad altri. Contrariamente a quanto erroneamente si crede, cambiare vino durante un pranzo non fa male. In alcuni pranzi importanti si riesce a servire anche 6 - 7 vini, partendo, magari, da un spumante brut, servito da aperitivo, per finire con un passito da abbinare ai dessert.
L'importante è la progressione. Bisogna presentarli in modo da predisporre il palato a poter sentire quelli che seguono.
I vini secchi vanno serviti prima dei dolci; i giovani prima di quelli invecchiati; i modesti prima dei grandi. Per saper bere il vino quindi, è indispensabile conoscerlo bene, sapere tutto di esso, come sceglierlo, servirlo, accompagnarlo: è un atto di amore verso la natura.
Il vino non si beve a garganella, nè genericamente a tutte le ore. Anzi, per ogni momento della giornata, come per ogni piatto, c'è il vino adatto. Non c'è dubbio che il momento migliore per l'assunzione del vino è quello di berlo a tavola. La qualità di un vino completa il piacere di un cibo e lo spiritualizza. Viceversa il sapore di un cibo scopre la qualità di un vino e lo esalta. Quindi la soluzione sta tutta in una scelta: Quella del vino congeniale.
Anche vini di livello qualitativo più modesto, possono esaltarsi se abbinati alle giuste pietanze. Viceversa un non appropriato piatto può non fare apprezzare appieno il vino migliore il assoluto.
Il giusto accostamento è solo uno dei modi per scoprire un vino, che richiede, tra l'altro, anche un servizio accurato. Per servizio del vino si intende il momento che va dalla presentazione della bottiglia alla mescita nel bicchiere.
Il vino proprio perchè frutto di tantissimo lavoro, sacrificio e cure, sia nella vigna che in cantina, merita rispetto e va trattato con grande amore.
Innanzitutto per estrinsecare tutte le sue caratteristiche peculiari deve essere servito a determinata temperatura.
Tutti sappiamo che le percezioni del sapore, che avvertiamo sulla lingua, si modificano con il variare della temperatura. Per esempio il dolce aumenta all'aumentare di essa: in modo esattamente opposto si comporta l'amaro. Quindi è possibile fare emergere l'una o l'altra percezione solo modificando opportunamente la temperatura di servizio. Questo spiega perchè i vini rossi, in genere, la cui caratteristica più importante è proprio la morbidezza, (dolcezza) vanno serviti a temperatura tra 14/20°, mentre per i vini bianchi le temperature sono più basse perchè tali vini esprimono meglio la loro freschezza (acidità) a quelle più basse (8/12°).
Altro elemento fondamentale per un giusto apprezzamento sensoriale è il bicchiere. Mai fare uso di bicchieri colorati, con sfaccettature varie, con ghirigori o mezzi ornamentali. L'ideale sarebbe disporre di calici di cristallo. Le percezioni del colore, della sua intensità, della sua vivacità, della sua trasparenza, danno indicazioni molto utili a comprendere un vino. Danno anche idea del suo stato evolutivo; per esempio le sfumature violacee in un rosso, danno idea di vino giovane; se sono mattonate/aranciate significa vino evoluto ed invecchiato.
Anche la forma del bicchiere è importante: essa è in relazione al tipo di vino da servire. La forma più diffusa e più razionale è quella del bicchiere a calice che riflette tutta la luce possibile.
Il vino è un'opera umana, che parte da un prodotto base (l'uva) più o meno pregiato, con l'utilizzo di tecniche giuste; ed è noto che per giudicare un'opera d'arte è assai importante la preparazione del "consumatore" , dell'Estimatore.
L'estrinsecazione dell'arte può avvenire in forme diverse che, nel caso del vino, sono di natura organolettica.
In sostanza il vino deve esprimere qualcosa in modo da poter essere percepito dal degustatore. Il gusto personale, però, non sempre coincide con il giudizio di qualità; perchè viene espresso secondo quelle che sono le percezioni avvertite e che, naturalmente, sono prodotte dagli elementi contenuti nel vino; sono anche collegate a fattori di ordine psicologico e fisici temporanei.
Il Vino annacquato non è certo invenzione dei nostri giorni. Già nell'episodio evengelico delle Nozze di Canaa si accenna alla consuetudine che il padrone di casa possa servire a fine banchetto, quando i commensali sono ebbri, vino di qualità scadente. Al Museo delle contraffazione dell'Unione dei Fabbricanti di Parigi è conservata un'anfora gallica, risalente al primo secolo d.c. che un produttore della Narbona aveva chiuso con un falso sigillo romano per far intendere all'acquirente che si trattava del più pregiato vino campano del Monte Massico.
Pertanto il vino, più spesso celebrato per essere compagno di allegria e di festa, viene anche collegato a comportamenti meno edificanti dell'uomo. Gli episodi del vino al metanolo, le cui conseguenze ci costarono un notevole danno in termini di calo delle esportazioni, o dell'antifermentativo a base di metilisotiacianato, dimostrano soltanto una specializzazione nella vecchia consuetudine all'adulterazione o alla sofisticazione.
E' sofisticato il vino fatto senza l'uva.
E' adulterato quello artificiosamente modificato. Se ciò può costituire la consolazione del "male comune" possiamo dire che, in misura più o meno intensa, frode e sofisticazione accomunano un pò tutti gli alimenti.
Ci viene domandato come mai in Italia, dove la coltura della vite è così connaturata al clima ed all'ambiente ed è pertanto così diffusa, si debba ricorrere alla sofisticazione del vino.
Il desiderio di facile guadagno è la risposta.
L'Italia occupa una posizione dominante nel settore della produzione vinicola e da anni si contende con la Francia il ruolo di leader del mercato. La produzione supera i 50 milioni di ettolitri ed i produttori sono oltre 1 milione. Tale settore dell'economia agricola ha la sua grave piaga nella sofisticazione e nella frode.
Forse, in assoluto, la sofisticazione più antica e più comune è quella dello zuccheraggio. Il grado alcolico del vino (derivante dalla fermentazione del glucosio e fruttosio, gli zuccheri propri dell'uva) può essere ottenuto sostituendo all'uva lo zucchero commerciale. Sono sufficienti una cisterna, dell'acqua, lo zucchero ed una fonte di energia per riscaldare l'acqua. A caldo ed in ambiente acido o mediante enzimi il saccarosio si inverte in glucosio-fruttosio. La fermentazione avvia il processo di trasformazione in alcol.
Come si quantifica la speculazione?
Il grado alcolico, per ettolitro, ottenuto con l'uva viene a costare circa 3€. con lo zucchero circa 1.5€, pari cioè al costo di 1,7 Kg di zucchero che si trasforma in un litro di alcol etilico. Con il metanolo si scende a circa 0.25€.
Moltiplicando le differenze per 12, pari alla gradazione normale di un vino ed ancora per centinaia di migliaia di ettolitri, entità delle partite che un produttore medio riesce a smerciare, si ottengono cifre dell'ordine di milioni di €. E' normale pertanto che di tale tipo di attività speculativa si sia impadronita la criminalità organizzata. Si tratta, comunque, di speculazione che viene attuata nel comparto industriale. Scarso significato avrebbe nell'azienda familiare.
L'azione di contrasto a questo tipo di illecito si svolge soprattutto seguendo i movimenti dello zucchero. Partendo dai dati di commercializzazione presso lo zuccherificio si segue tutto il viaggio del prodotto e si scopre che le partite di zucchero non sono mai arrivate alla destinazione indicata nei documenti di accompagnamento e che l'indirizzo del destinatario anzichè ad un deposito di alimenti, corrisponde ad un tugurio disabitato. Chi ha interesse cerca, in tal modo, di farne perdere le tracce. Oppure si cerca di scaricarlo documentalmente simulando falsa produzione ad esempio di pesche sciroppate, settore che beneficia di aiuto comunitario. Si ottiene così il duplice vantaggio di realizzare una truffa alla CEE percependo indebiti contributi per produzioni inesistenti e si ha la disponibilità di zucchero per la sofisticazione del vino.
Quando la sofisticazione è ven realizzata, e nel settore abbiamo purtroppo ottimi specialisti, il laboratorio ufficiale non è di molto aiuto. Trascorse 12 - 24 ore dall'avvio del processo di fermentazione il saccarosio si è già trasormato in glucosio e fruttosio per cui la risposta dell'analisi non è sufficiente a convincere il giudice. Occorre pertanto sorprendere i sofisticatori sul fatto e bloccare sul nascere la fermentazione. Da alcuni anni i laboratori del Servizio Repressione Frodi del Ministero dell'Agricoltura e l'Istituto Sperimentale per l'Enologia di Alsti sono dotati di spettrofotometro a risonanza magnetica. La risposta di questo strumento è più precisa. Tuttavia se al vino sofisticato viene miscelato vino genuino, possono insorgere dubbi. Pertanto l'attività di contrasto più sicura e più redditizia è ancora affidata al vecchio sistema basato sulla ricerca informativa e sull'indagine.
L'indagine comporta generalmente l'esigenza di controllare una gran mole di documenti per stabilire la correttezza di collegamenti tra agricoltore, trasportatore e produttore di vino. Si scopre allora, seguendo un flilo di Arianna, che all'indirizzo dello stabilimento vi è un'officina, oppure una vecchia azienda vinicola abbandonata, che l'autista quel giorno, anzichè trasportare uva, aveva portato un carico di ferro in tutt'altra zona, che la targa dell'autocarro corrisonde ad un'autovettura demolita o che al posto del vigneto vi è un bel campo di grano.
Abbiamo detto in sostanza che lo zucchero è nemico del vino. Per la verità in alcuni Paesi Europei, soprattutto la Francia, ed eccezionalmente anche in Italia è ammesso uno zuccheraggio controllato per consentire di intervenire su produzione d'uva a basso contenuto zuccherino. In proposito vigono norme molto precise che regolano la commericalizzazione dello zucchero le quali rientrano tutte in quella fondamentale per la repressione delle frodi nella preparazione dei vini, data da D.P.R. 12 febbraio 1965 n. 162.
Nonostante il rigore delle norme i sofisticatori riescono ad eluderle costituendo stabilimenti fittizi che a null'altro servono se non a produrre documenti falsi.
Chi commette sofisticazione valuta in genere se vi sia:
- convenienza economica;
- possibilità tecnica di realizzare l'inganno;
- rischio nell'iniziativa.
Non vi è alcun dubbio circa la convenienza economica. I risparmi rispetto ai costi del vino genuino sono enormi. Esiste anche la possibilità tecnica di realizzare la frode sia perchè il responso analitico raramente aiuta l'organo di controllo ed anche perchè è tecnicamente possibile acquisire falsa documentazione di appoggio. Il rischio è proporzionato alla efficacia dell'attività di contrasto. Per delineare meglio tale attività dobbiamo parlare anche del costo di una indagine espressa in forze e tempi da impiegare. Un'indagine richiede controlli documentali onerosissimi che si protraggono per mesi interi e comportano l'impiego di più elementi altamente specializzati.
A conclusione degli accertamenti si evidenziano reati che vanno dalla sofisticazione vinicola all'associazione per delinquere.
Accanto ad ogni successo nella lotta alla sofisticazione dobbiamo annoverare anche indagini che non consentono arresti o sequestri. Offrono tuttavia un risultato sul piano conoscitivo utile comunque per successivi interventi.
A prescindere dall'attività di contrasto, più o meno redditizia, ritengo che una risposta efficace alla sofisticazione venga data dalle organizzazioni di categoria. Nel campo dell'enologia abbiamo professionisti veramente seri e capaci. Se pensiamo al successo di certi prodotti garantiti da un marchio non possiamo non guardare con grande rispetto ad una categoria di seri imprenditori che, alla guida di strutture che vanno dalla dimensione familiare a quella industriale, si sono imposti una disciplina e si impegnano a rispettarla giorno dopo giorno. In questa ottica ed in questa dimensione scattano gli automatismi che valgono da soli ad emarginare l'operatore scorretto. I numerosi vini D.O.C. e D.O.C.G. dimostrano un importante passo verso un impegno alla serietà. I responsabili dei consorzi devono essere severi. Hanno dalla loro l'autorità della competenza professionale e l'adesione dei consumatori. Conoscono meglio di chiunque i segreti della produzione e sanno dove si può celare l'inganno.
Un buon vino casalingo
Il vino proviene dalla fermentazione dello zucchero dell’uva, fermentazione attuata da microorganismi chiamati lieviti, esseri microscopici che lo scompongono trasformandolo in alcool. Questi lieviti si trovano ovunque in natura (fiori, foglie, corteccia degli alberi, terreno ecc.) e arrivano sugli acini dell’uva trasportati dagli insetti e dal vento. L’azione di questi microorganismi inizia quando, dopo la vendemmia, si procede ad ammostare l’uva, una delle fasi più importanti tra quelle che si succedono per la preparazione di una buona bottiglia di vino. Vediamole in ordine di successione.
Vendemmia o acquisto
Chi vuole fare l’esperienza di prepararsi un buon vino in casa deve ovviamente, in primo luogo, procurarsi l’uva. Se si dispone di un piccolo vigneto la raccolta del frutto va affrontata al momento giusto. L’uva, oltreché matura in maniera consona, non deve essere bagnata dalla pioggia o da un’eccessiva rugiada, perché ciò diluisce il mosto. Allo stesso tempo, però, essa non deve essere troppo calda perché nelle ceste può dare luogo a fermentazioni inopportune. È comunque un accorgimento importante da seguire quello di portare rapidamente l’uva alla pigiatura, perché così si possono evitare inacidimenti o altri inconvenienti che si possono verificare soprattutto se si usano ceste di plastica che non lasciano traspirare i grappoli ammucchiati.
Questo accorgimento vale anche per chi l’uva la acquista. I tempi tra vendemmia e pigiatura è meglio che siano i più brevi possibili. A tal fine, l’acquirente dovrebbe sincerarsi che l’uva provenga da un luogo vicino, e che quindi ci siano maggiori possibilità che sia stata colta a tempo debito e non prima.
È da evitare l’uva trasportata nei teli di plastica perché ciò dà origine, nel fondo del cassone, a un deterioramento del mosto che non è né salutare né gustoso. Se è possibile, bisognerebbe acquistare uva venduta in ceste di vimini o anche di plastica purché dotate di apposite finestrelle per l’aerazione. È sempre meglio controllare inoltre che i grappoli siano tutti sani e non solo quelli in evidenza che costituiscono lo strato superiore delle ceste.
Una pratica sconsigliata è quella di lavare l’uva prima della pigiatura. Lavandola, infatti, si dilaverebbero proprio quei lieviti che sono i responsabili della fermentazione alcoolica, mentre gli antiparassitari non si eliminano di certo con un semplice lavaggio in acqua.
Pigiatura
La pigiatura è, in effetti, la prima vera e propria fase di trasformazione dell’uva in vino. Essa consiste nel comprimere i grappoli con una macchina (pigiatrice a rulli, pigiadiraspatrice, ecc.) al fine di far fuoriuscire il succo dagli acini.
Per un uso familiare, la pigiatura può essere realizzata con i piedi, così come avveniva un tempo in molte realtà contadine, dove si usavano a tal uopo casse di legno con falsi fondi bucherellati. Per piccole quantità si può anche semplicemente schiacciare l’uva con le mani dopo aver messo i grappoli in un recipiente capiente e adatto allo scopo. In verità, esistono in commercio anche pigiadiraspatrici centrifughe per uso hobbistico, ma di norma sono abbastanza inutili sia per le ridotte dimensioni che per il costo assai elevato.
Alla pigiatura segue la diraspatura, ossia l’allontanamento dei raspi - l’ossatura del grappolo che tiene insieme gli acini - dalla polpa e dalle bucce. Essi vanno tolti per evitare un aumento dell’acidità del vino e la cessione ad esso di sostanze sgradevoli tra cui quelle tanniche che non sono propriamente salutari.
Fermentazione
A questo punto il mosto così ottenuto viene messo direttamente nel contenitore di fermentazione per la cosiddetta “macerazione”.
La fermentazione alcoolica è il processo mediante il quale i lieviti, come si è detto, trasformano gli zuccheri del mosto in alcool. Il mosto inoltre può contenere le bucce oppure no (vedi paragrafo 3.4).
In questa fase, ci sono alcune regole da rispettare per ottenere un buon risultato: a) non bisogna mai coprire il contenitore in cui avviene la fermentazione; b) tenere chiuse porte e finestre nel locale in cui è in atto l’operazione (o quanto meno consentire una razionale e non sproporzionata aerazione); c) mantenere una temperatura costante nel locale e comunque compresa idealmente tra i 21 e i 25 °C; d) controllare che la produzione di anidride carbonica non sia eccessiva (anche con il semplice accorgimento di una candela stearica: se si spegne entrando nel locale significa che l’ossigeno è scarso); e) controllare la massa fermentante e intervenire in caso di tendenza a straripamento (vedi oltre). Dato che si usa un contenitore scoperto (e si può anche lasciare fermentare addirittura nello stesso tino o recipiente in cui si è pigiato), al fine di impedire che il mosto, successivamente trasformato in vino, a fermentazione conclusa inacidisca, è meglio mettere un peso sulla massa mostosa in modo che questa venga pressata. I vinificatori mettono normalmente dei pali di legno tagliati di misura e incrociati sopra il mosto. La fermentazione inizia appena 4-5 ore dopo la pigiatura e la massa entra in ebollizione dopo 24 ore. La durata della fermentazione può essere varia a seconda delle esigenze del vinificatore. Se si desidera ottenere un vino corposo, amaro e colorito e con una elevata gradazione alcoolica si può lasciar fermentare per 18-22 giorni, ossia lasciando completare il ciclo effettivo della fermentazione. Se si vuole un vino poco alcoolico, di gusto amabile e non molto corposo è meglio interromperla dopo 4 o 5 giorni. Se, infine, si gradisce un vino rosato, vinificando con la vinaccia, è opportuno interrompere la fermentazione dopo 18 o 24 ore al massimo. È importante ricordarsi di non riempire mai oltre i 3/4 della cubatura del contenitore entro cui si è messo il mosto perché durante la fase “tumultuosa” di fermentazione esso aumenta di volume e se il contenitore è troppo pieno può straripare.
Va aggiunto anche che se si opta per la fase di fermentazione completa (quella di 18-22 giorni) va effettuata la follatura, cioè il rimescolamento del mosto una volta almeno ogni 12 ore. Questa operazione è importante perché evita probabili fenomeni di acidità, inibisce il formarsi di una quantità esagerata di anidride carbonica e facilita la soluzione dei pigmenti coloranti.
Bisogna in conclusione precisare che non sempre il mosto presenta zuccheri sufficienti per raggiungere il minimo di 11,5 o 12 gradi alcoolici che consentono un vino sano e conservabile. In presenza di questa eventualità (verificabile con un normale densimetro inserito in un recipiente cilindrico pieno di mosto) si può aggiungere saccarosio (che poi sciogliendosi ridà fruttosio e glucosio). L’aumento di un grado alcoolico si ottiene aggiungendo al mosto in fermentazione 1,7 Kg/q di saccarosio.
I primi giorni di ammostamento bisogna controllare che la fermentazione parta bene. Se dopo qualche tempo essa non è ancora avvenuta può darsi che la temperatura del locale sia troppo bassa, per cui occorrerà riscaldare un pochino l’ambiente. Può però anche essere il caso che vi sia carenza di lieviti. Si tenterà allora di farli riprodurre aerando il mosto (cfr. follatura) o aggiungendo sostanze azotate come il fosfato di ammonio di cui essi si nutrono. Talvolta si può ricorrere all’acquisto di lieviti selezionati da aggiungere.
Svinatura, travaso, imbottigliamento
Quando la fermentazione è cessata, e all’assaggio si sente che tutto lo zucchero è stato trasformato, si può passare alla svinatura che è la separazione della vinaccia (l’insieme della parti ancora solide dell’uva) dal vino. Si può usare a tal fine anche un setaccio di vimini che tratterrà tutte le impurità e i vinaccioli. Il vino ottenuto va poi versato in un contenitore (un barilotto se si tratta di una piccola quantità) che andrà riempito completamente senza che restino residui d’aria. A questo punto si lascia ridiscendere la temperatura a quella ambiente (16 °C). Volendo, si può aggiungere anche il vino che esce dalla successiva prima torchiatura che possiamo fare alle vinacce rimaste nel contenitore di fermentazione (esistono in commercio anche piccoli torchi a motore elettrico). Dalla seconda torchiatura, invece, si potrà, dopo averlo messo anch’esso in botte, “tagliarlo”* intelligentemente per il consumo quotidiano.
Il vino in botte (o altro recipiente in cui l’avrete sigillato) continuerà il suo lavorio rilasciando continuamente depositi sedimentosi. Sarà utile quindi effettuare dei travasi in altri recipienti. In linea di massima, se si vinifica canonicamente in autunno si potrà travasare una prima volta tra fine novembre e inizio dicembre, una seconda a gennaio e una terza a primavera inoltrata. È importante travasare in giornate serene e asciutte cioè con una pressione atmosferica alta che limiti i movimenti naturali del sedimento.
Ora non resterà che aspettare il momento buono per imbottigliare. Per il vino al suo primo anno di vita il periodo migliore per l’imbottigliamento è quello che va da giugno ad agosto. Ancora qualche mese di pazienza (almeno sei) e il vino in bottiglia è pronto per essere gustato.
* Il “taglio” è l’operazione con la quale si miscelano due o più qualità di vino per ottenerne uno con determinati requisiti di colore, grado alcoolico e gusto.
Vino bianco
Se si vuole il vino bianco, quando si è pigiato e diraspato, e prima della fermentazione, si proceda a togliere le bucce mediante l’uso di sgrondatrici o di torchi. Per una piccola produzione casalinga si possono avvolgere i grappoli pigiati in una pezza di tela per poi spremerli in una pressa rudimentale (va bene anche un bidone di metallo ed un pistone di legno appositamente modellato che si premerà da sopra) o mediante l’uso di un cric per auto.
Succo d’uva
Con l’uva si può anche ottenere un buon succo analcolico che possono bere anche i bambini. Prendere dei grappoli d’uva nera matura, dirasparli, e mettere gli acini in un colino dove vanno lavati bene sotto acqua corrente. In una pentola, possibilmente di acciaio, si versano poi tre dita d’acqua e si aggiungono tutti gli acini lavati e scolati. Quindi si mette il tutto a cucinare a fuoco moderato. Per i primi quindici minuti bisogna rimestare frequentemente con un cucchiaio di legno, perché gli acini che devono aprirsi lasciando uscire il succo, possono attaccarsi al fondo della pentola. Se ciò si verificasse basta aggiungere ancora un po’ di acqua tiepida. Dopo circa mezz’ora, quando l’acino è completamente disfatto e la pentola si è riempita di succo, spegnere e vuotare il tutto in un colino, sotto il quale avrete riposto un’ampia terrina. Aiutandosi con un cucchiaio di legno mescolare quindi le bucce e i vinaccioli rimasti nel colino e fare gocciolare il succo che ancora ne esce nella terrina sottostante.
Nel frattempo, avrete preparato, pulite ed asciutte, delle bottigliette, possibilmente da 125 ml. Infatti, dato che il succo non contiene conservanti, una volta aperto deve essere consumato in giornata, per cui bottiglie di piccola taglia meglio si prestano a tale scopo. Le bottigliette vanno riposte nel forno freddo e questo va poi acceso e portato alla temperatura di 100-125 °C. Quando il forno ha raggiunto la temperatura indicata, si lasciano sterilizzare le bottigliette per 5 minuti e poi si spegne. A questo punto, con un guanto da cucina si prendono le bottigliette e tramite un imbuto vi si versa il succo d’uva altrettanto caldo. Infine, si posizionano le bottigliette nella tappatrice a pressione e si tappano. Si ripongono allora le bottigliette coricate una di fianco all’altra su di una tovaglia ripiegata, e si coprono con un lembo della tovaglia stessa affinché si raffreddino lentamente. Il giorno dopo, a raffreddamento ultimato, si possono etichettare e poi riporre in un luogo fresco e buio. La durata di questi succhi casalinghi è di almeno un anno. La consumazione può invece avvenire immediatamente.
I “siguli“ (o “sugoli”)
È una ricetta della tradizione contadina veneta a base di mosto. Va usato mosto fresco appena fatto, quando è ancora dolce e frizzante. Meglio se d’uva fragola. In una pentola di acciaio preparare la quantità di farina che serve a seconda della dose che si vuole preparare. Indicativamente, ci va un cucchiaio di farina bianca per ogni bicchiere di mosto (dose minima per una persona). Dopo aver intiepidito a parte il mosto, aggiungerlo poco alla volta alla farina, mescolando continuamente con un cucchiaio di legno per evitare la formazione di grumi (come si fa per preparare un budino). Mettere quindi sul fuoco (lento) continuando ancora a mescolare per almeno mezz’ora in modo che non attacchi sul fondo. Poi spegnere e mettere i “siguli” caldi così ottenuti in vasetti di vetro (puliti e asciutti) a chiusura ermetica. Capovolgere i vasetti su di una tovaglia, coprirli con un panno e lasciar raffreddare lentamente. Il giorno dopo riporre in frigorifero e consumare entro sette o otto giorni al massimo. La formazione di una leggera muffa sopra il “budino” di mosto che potrebbe uscire nei giorni seguenti non ha particolari controindicazioni. Una volta che la si è tolta, di norma i siguli sono ancora più buoni.
Gli antichi egizi usavano come medicina il vino rosso
Pare, infatti, che già gli antichi egizi, attorno al 3150 a.C., utilizzassero le proprietà benefiche del 'nettare degli Dei', arricchendolo con erbe e resine di vario genere per ottenere gli effetti salutari più disparati.
Lo affermano sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences (Pnas) gli studiosi dell'università della Pennsylvania (Usa). L'analisi chimica di alcune damigiane ritrovate in scavi antichi ha infatti rilevato la presenza di sostanze provenienti da alberi immerse nel vino, al quale venivano quindi riconosciute proprietà medicinali
Impara COME FARE IL VINO dal libro Pane Formaggio e Vino di Valerio Pignatta